RASSEGNA STAMPA
La Repubblica -"Io, l´infame che denunciò gli orrori di Bolzaneto"
Genova, 18 marzo 2008
GIUSEPPE D´AVANZO
Marco Poggi, infermiere penitenziario, entrò in servizio a Bolzaneto alle
20 di venerdì 20 luglio 2001 e ci rimase fino alle 15, 15.30 di domenica
22 luglio. «Ho visto picchiare con violenza e ripetutamente i detenuti
presenti con schiaffi, pugni, calci, testate contro il muro».
"Io, l´infame della caserma che ha denunciato quelle torture"
Marco Poggi, infermiere penitenziario, era in servizio in quei tre giorni
Il racconto al pm e un libro sulla vicenda: "Quegli uomini dovevano essere
sospesi"
GIUSEPPE D´AVANZO
«Picchiava la polizia di stato ma soprattutto il "gruppo operativo mobile"
e il "nucleo traduzioni" della polizia penitenziaria. Ho visto trascinare
un detenuto in bagno, da tre o quattro agenti della "penitenziaria". Gli
dicevano: "Devi pisciare, vero?". Una volta arrivati nell´androne del
bagno, ho sentito che lo sottoponevano a un vero e proprio linciaggio…».
Marco Poggi dice che sa che cos´è la violenza. «Ci sono cresciuto dentro.
Ho "rubato" la terza elementare ai corsi serali delle 150 ore e sono
andato infermiere in carcere per buscarmi il mio pezzo di pane. Per anni
ho lavorato al carcere della Dozza a Bologna. Un posto mica da ridere.
Tossici, ladri di galline, mafiosi, trans, stupratori. La violenza la
respiravi come aria, ma quel che ho visto a Bolzaneto in quei giorni non
l´avrei mai ritenuto possibile, prima. Alcuni detenuti non capivano come
fare le flessioni di routine previste dalla perquisizione di primo
ingresso in carcere. Meno capivano e più venivano picchiati a pugni e
calci dagli agenti della polizia penitenziaria. Gli ufficiali, i
sottufficiali guardavano, ridevano e non intervenivano. Ho visto il
medico, vestito con tuta mimetica, anfibi, maglietta blu con stampato
sopra il distintivo degli agenti della polizia penitenziaria, togliere un
piercing dal naso di una ragazza che era in quel momento sottoposta a
visita medica e intanto le diceva: "Sei una brigatista?"».
Marco Poggi è «l´infame di Bolzaneto». Così lo chiamavano alcuni agenti
della "penitenziaria" e lui, in risposta, per provocazione, per orgoglio,
per sfida, proprio in quel modo - Io, l´infame di Bolzaneto - ha voluto
titolare il libro che raccoglie la sua testimonianza. Poggi è stato il
primo - tra chi era dall´altra parte - a sentire il dovere di rompere il
cerchio del silenzio. «Delle violenze nelle strade di Genova - dice -
c´erano le immagini, le foto, i filmati. Tutto è avvenuto alla luce del
sole. A Bolzaneto, no. Le violenze, le torture si sono consumate dietro le
mura di una caserma, in uno spazio chiuso e protetto, in un ambiente che
prometteva impunità. Solo chi l´ha visto, poteva raccontarlo. Solo chi
c´era poteva confermare che il racconto di quei ragazzi vittime delle
violenze era autentico. Io ero tra quelli. Che dovevo fare, allora? Dopo
che sono tornato a casa da Genova, per giorni me ne sono stato zitto,
anche con i miei. Io sono un pavido, dico sempre. Ma in quei giorni avevo
come un dolore al petto, un sapore di amaro nella bocca quando ascoltavo
il bla bla bla dei ministri, le menzogne, la noncuranza e infine le accuse
contro quei ragazzi. Non ho studiato - l´ho detto - ma la mia famiglia mi
ha insegnato il senso della giustizia. Non ho la fortuna di credere in
Dio, ho la fortuna di credere in questa cosa - nella giustizia - e allora
mi sono ripetuto che non potevo fare anch´io scena muta come stavano
facendo tutti gli altri che erano con me, accanto a me e avevano visto che
quel che io avevo visto. Ne ho parlato con i miei e loro mi hanno detto
che dovevo fare ciò che credevo giusto perché mi sarebbero stati sempre
accanto. E l´ho fatta, la cosa giusta. Interrogato dal magistrato, ho
detto quel che avevo visto e non ci ho messo coraggio, come mi dicono ora
esagerando. Non sono matto. Ci ho messo, credo, soltanto l´ossequio per lo stato, il rispetto per il mio lavoro e per gli agenti della polizia
carceraria - e sono la stragrande maggioranza - che non menano le mani».
Marco Poggi ha pagato il prezzo della sua testimonianza. «Beh! - dice - un
po´ sì, devo dirlo. Dopo la testimonianza, in carcere mi hanno consigliato
- vivamente, per dire così - di lasciare il lavoro. Dicevano che quel
posto per me non era più sicuro. Qualcuno si è divertito con la mia auto,
rovinandomela. Qualche altro mi ha spedito la mia foto con su scritto: "Te
la faremo pagare". Il medico con la mimetica e gli anfibi mi ha denunciato
per calunnia. Ma il giudice ha archiviato la mia posizione e con il lavoro
mi sono arrangiato con contratti part-time in case di riposo per anziani.
Oggi, anche se molti continuano a preoccuparsi della mia integrità più di
quanto faccia solitamente la mia famiglia, sono tornato a lavorare in
carcere, allo psichiatrico di Castelfranco Emilia. Mi faccio 160
chilometri al giorno, ma va bene così. Sono tutti gentili con me, l´infame
di Bolzaneto».
Dice Marco Poggi che «se i reati non ci sono - se la tortura non è ancora
un reato - non è che te li puoi inventare». Dice che lui «lo sapeva fin
dall´inizio che poi le condanne sarebbero state miti e magari cancellate
con la prescrizione». Dice Poggi che però «quel che conta non è la
vendetta. La vendetta è sempre oscena. Il direttore del carcere di Bologna
Chirolli - una gran brava persona che mi ha insegnato molte cose sul mio
lavoro - ci ripeteva sempre che lo Stato ha il dovere di punire e mai il
diritto di vendicarsi. Mi sembra che sia una frase da tenere sempre a
mente. Voglio dire che importanza ha che quelli di Bolzaneto, i
picchiatori, non andranno in carcere? Non è che uno voglia vederli per
forza in gabbia. La loro detenzione potrebbe apparire oggi soltanto una
vendetta, mi pare. Quel che conta è che siano puniti e che la loro
punizione sia monito per altri che, come loro, hanno la tentazione di
abusare dell´autorità che hanno in quel luogo nascosto e chiuso che è il
carcere, la questura, la caserma. Per come la penso io, la debolezza di
questa storia non è nel carcere che quelli non faranno, ma nella sanzione
amministrativa che non hanno ancora avuto e che non avranno mai. Che ci
vuole a sospenderli da servizio? Non dico per molto. Per una settimana.
Per segnare con un buco nero la loro carriera professionale. È questa la
mia amarezza: vedere i De Gennaro, i Canterini, i Toccafondi al loro
posto, spesso più prestigioso del passato, come se a Genova non fosse
accaduto nulla. Io credo che bisogna espellere dal corpo sano i virus
della malattia e ricordarsi che qualsiasi corpo si può ammalare se non è
assistito con attenzione. Quella piccola minoranza di poliziotti,
carabinieri, agenti di polizia penitenziaria, medici che è si abbandonata
alle torture di Bolzaneto è il virus che minaccia il corpo sano. Sono i
loro comportamenti che hanno creato e possono creare, se impuniti,
sfiducia nelle istituzioni, diffidenza per lo Stato. Possono trasformare
gli uomini in divisa - tutti, i moltissimi buoni e i pochissimi cattivi -
in nemici del cittadino. Non ci vuole molto a comprendere - lo capisco
anch´io e non ho studiato - che soltanto se si fa giustizia si potrà
restituire alle vittime di Genova, ai giovani che vanno in strada per
manifestare le loro idee, fiducia nella democrazia e non rancore e
frustrazione. I giudici fanno il loro lavoro, ma devono fare i conti con
quel che c´è scritto nei codici, con quel che viene fuori dai processi.
Non parlo soltanto dei processi, è chiaro. Parlo della responsabilità
della politica. Che cosa ha fatto la politica per sanare le ferite di
Genova? Gianfranco Fini, che era al governo in quei giorni, disse che, se
fossero emerse delle responsabilità, sarebbero state severamente punite.
Perché non ne parla più, ora che quelle responsabilità sono alla luce del
sole? Perché Luciano Violante si oppose alla commissione parlamentare
d´inchiesta? Dopo sette anni questa pagina nera rischia di chiudersi con
una notizia di cronaca che dà conto di una sentenza di condanna, peraltro
inefficace, senza che la politica abbia fatto alcuno sforzo per
riconciliare lo Stato e le istituzioni con i suoi giovani. Ecco quel che
penso, e temo».